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Indispensabili – Trafficanti (di morte) – Cap 5) LA VIA AFRICANA

Posted by giannigirotto su 26 febbraio 2014

Proseguiamo con la pubblicazione di un estratto di un libro che aggiungo alla mia sezione “Indispensabili“, libro che tratta in particolare dei traffici di sostanze inquinanti, con particolare riguardo chiaramente a quelli che avvengono, in entrate ed in uscita, in Italia.

E’ un libro durissimo, che definire indigesto è un eufemismo. Un libro che mette a nudo una piccolissima parte delle più sporche ma sopratutto mortali porcherie che da decenni vedono piccole e grandi imprese infrangere la legge e smaltire illecitamente rifiuti pericolosissimi semplicemente sversandoli nel territorio, interrandoli, ammassandoli l’uno sopra l’altro, caricandoli su navi che poi vengono affondate, e in mille altri modi ugualmente deleteri.

In questi estratti troverete date, nomi, luoghi, cifre, fatene l’uso che riterrete più opportuno, ma per favore, non voltatevi dall’altra parte, ne va del futuro dei nostri figli.
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Cap. 5 – La Via Africana

Un club esclusivo

Non ha assolutamente la parvenza di una neonata dal cordone ombelicale appena reciso, il fatto che dietro l’infinita storia del traffico di rifiuti compaia il nome dell’uomo che ha attraversato per decenni interi i segreti italiani, ossia Licio Gelli. Il venerabile riapparve nel 1989 negli accordi preliminari tra gli esponenti del Clan di Casal di Principe e gli imprenditori del Nord Italia, interessati ad usare le terre dell’agro di Caserta come sversatoio. Uno dei primi atti istruttori della Procura di Napoli, nell’inchiesta Adelphi, risalente al 1993, fu la perquisizione di Willa Wanda, la residenza di Gelli. Il capo della P2 era considerato in stretto legame con Gaetano Cerci, uno dei responsabili “ambientali” per conto dei Casalesi. Molti dei pulcini, che seguivano la chioccia Gelli nella P2, furono implicati nelle inchieste dei traffici criminali (soprattutto del traffico nei paesi africani), a testimonianza che quel modello di camera di compensazione tra l’economia, le oligarchie e lo Stato fu qualcosa di più che un effimero gruppo massonico. Il patrimonio da limare, concerne, innanzitutto, la conoscenza di quei circoli esclusivi che in Europa sono il motore occulto dell’economia. Le strutture che delineano la raccolta, il trasporto e il trattamento finale dei rifiuti industriali devono avere, come premessa, il controllo assoluto di ogni passaggio. Il manuale del buon trafficante prevede alcune fasi: avere un piccolo trasportatore di fiducia che sappia mascherare il contenuto dei fusti che si andrà a prelevare; disporre in rubrica del numero di alcuni armatori, ossia gente esperta capace di trovare navi discrete,e di cambiare rapidamente un contratto di noleggio per un mercantile quando qualcosa non funziona; ma soprattutto munirsi di nazioni fragili, con governi assetati di armi, per mantenere le decennali guerre che distruggono la loro gente e le loro terre. Inoltre, il manuale del buon trafficante consiglia vivamente di creare una struttura di copertura, come una holding, che possa conferire un’apparenza patinata ad affari che assomigliano più alle libere contrattazioni dei mercati rionali che alle borse d’affari londinesi.

Il metodo sopra stilato, venne già sperimentato da una superstar dei traffici, come Bernard Paringaux, colui che nascose i 41 fusti carichi di diossina venuti da Seveso. A conforto del lettore, al quale questo nome, magari, non dice nulla, dirò che il traffico dei rifiuti, è uno sport che non gode né di ampi riflettori, né tantomeno dell’attenzione da parte degli addetti a secernare informazione.

Il mestiere del trafficante è a dir poco estenuante, però talvolta, da esso, fioriscono delle soddisfazioni impareggiabili. Come quando si traffica materiale che gode di un alto grado di pericolosità. Infatti la pericolosità del materiale trafficato è direttamente proporzionale al ricavo monetario del servizio. Però si sa: dietro ad un grande trafficante c’è sempre una politica di merda. Quando gli anticorpi, presenti all’interno della politica, si trovano prostrati ai virus più temibili, la politica medesima, diventa l’amante con la quale il trafficante, può unirsi alla ricerca della sua idea di piacere, l’odore del denaro sporco, che inebria i polmoni incelofanati di melma, di chi da tempo ha preferito la morte nel non respiro, ad un po’ di aria sana. Con queste modalità s’impose sulla scena il gruppo di Licio Gelli.

Dalle confessioni rivolte ai magistrati, da parte di alcuni dei protagonisti della vicenda, possiamo ricostruire la storia che ha al centro quella Somalia che Ilaria Alpi voleva raccontare nel Tg della sera del 20 marzo 1994.

Il Rasputin dei rifiuti

Guido Garelli, fuori dal carcere di Ivrea, dove è ora rinchiuso, si presentava come il Colonnello della Autorità Territoriale del Sahara, carica che ereditò dal padre Ettore, anche lui membro dell’Amministrazione territoriale del Sahara (ATS). Dietro la sigla dell’Ats si nascondevano uffici commerciali, apparentemente velati di normalità, a Gibilterra, l’enclave britannica che si affaccia sull’accesso al Mediterraneo. Poteva fare di tutto: agire come mercante, banchiere, mediatore di commodities, armatore, poteva altresì importare, esportare, vendere, comprare e scambiare.

Guido Garelli era molto più di un semplice trafficante: il progetto che la società di copertura di Gibilterra aveva disegnato era immenso, il più grande deposito di rifiuti pericolosi del mondo, nel cuore del Sahara, nella terra teatro della guerriglia saharawi. Garelli aveva in dote un compito ben preciso consistente nel: studiare il mercato; creare gli agganci giusti; capire come funzionava quel business che avrebbe potuto finanziare l’indipendenza del suo paese adottivo, scacciando l’esercito marocchino che dagli anni Settanta occupava la striscia del Sahara occidentale, stretto tra la Mauritania e il Marocco.

Guido Garelli finì in carcere, per l’ennesima volta, nel 1998, con una sfilza di condanne che gli varranno almeno un decennio di galera. Il suo nome apparve, proprio nei mesi dell’arresto, in due inchieste fondamentali per capire il grande traffico di rifiuti dalle proporzioni internazionali. Il 13 gennaio il pm di Asti Luciano Tarditi, accompagnato dall’ispettore della Forestale Gianni de Podestà, incontrò Guido Garelli, che dopo l’interrogatorio venne trasferito da Rebibbia ad Ivrea. Il capo d’imputazione per il colonnello del Sahara occidentale era ancora coperto, in quanto Tarditi manifestava l’intenzione di giocare le sue carte migliori solamente dopo aver esplorato in maniera accurata la psiche di Garelli. Il racconto di Garelli si mimetizzò in un flusso di coscienza, pressoché inarrestabile. Tuttavia, il colloquio, tra Tarditi e Garelli, non godeva di parvenza alcuna di serenità. Infatti, qualcuno, dopo aver messo una microspia nella saletta riservata del carcere di Rebibbia, stava origliando la conversazione. Gli investigatori che accompagnavano il magistrato individuarono la microspia. Non si scoprirà mai chi l’ebbe messa. L’interrogatorio proseguì e Garelli, curiosamente, esplicò di aver ricevuto l’ordine dal ministero di Grazia e Giustizia di non proliferare parola ad individuo alcuno, soprattutto se codesto ricoprisse il ruolo di magistrato. Ma Tarditi non era tipo da cadere in becere intimidazioni, anzi, dopo aver assaporato per via acustica, la rivelazione di Garelli, rincalzò la dose. Molti racconti saranno poi riscontrati dagli investigatori del Corpo Forestale dello Stato, guidati dall’ispettore Gianni de Podestà, che da anni aveva imparato a destreggiarsi nei percorsi ricchi di impervie stilati dai trafficanti di armi e di rifiuti. Guido Garelli è una risposta. Una risposta in grado di collegare elementi, di apparenti affinità discrasiche, che però, attraverso una solida e testarda pala, possono essere scavati e limati al punto di essere congiunti fra loro.

Dalle tante inchieste svolte dalle Procure Italiane sui broker internzionali di armi e rifiuti emerse una sorta di finanza parallela, una via del riciclaggio di alto livello dove transitavano monete apparentemente fuori corso, titoli di Stati defunti, come la Repubblica di Weimar. Pezzi di carta in teoria senza valore, ma che componevano un tourbillon senza senso di scambi, con quotazioni segrete, decise, però, sulle piazze finanziarie più importanti d’Europa. Il racconto di Garelli parte da qui, spiegando per la prima volta come una moneta dichiarata fuori corso possa venire riesumata, acquisendo una seconda giovinezza. La sua testimonianza si rivelò davvero interessante, poiché alzò il sipario sugli aspetti meno conosciuti della prima guerra del Golfo Persico, intersecando l’organizzazione mondiale dei traffici ai nodi geopolitici più delicati. Garelli affermò che allo scoppio della guerra, la prima mira di Saddam fu quella di mettere le mani sulla Banca centrale del Kuwait, da dove prese l’oro e tutta la riserva dei dinari kuwaitiani, una moneta artificiale dal valore di 4800 lire circa. Ne portarono via 160 miliardi con dei camion, a Baghdad. Il tentativo dell’operazione era di far circolare parallelamente il dinaro del Kuwait. Non lo presero tutto, ne rimasero 60 miliardi in Kuwait. Per un totale, stando ai discorsi di Garelli, di 228 miliardi. Dopo di ciò vi fu Desert Storm, l’Iraq perse e la prima cosa che fece la banca del Kuwait fu di dichiarare fuori corso quei dinari andati a Baghdad. Ma solo apparentemente. Il problema è che non si sa dove siano finiti questi dinari. E qui si innesca il gioco delle banche. Quell’economia oscura dei trafficanti di armi e di rifiuti ha bisogno del suo sistema finanziario. Ufficialmente sono imprese che non esistono, sotterranee, pezzi di un mondo sommerso. Serve dunque un sistema finanziario parallelo, serve una moneta invisibile. La finanza dei trafficanti può, poi, scegliere tra diverse opzioni per garantire l’invisibilità degli scambi, come per esempio la creazione di depositi neri di denaro, utili a mettere in atto delle transazioni occulte. Un denaro che non esiste, per un mercato che non esiste.

Il progetto Urano

Il groviglio di identità e di storie del colonnello di uno Stato inesistente rende di fatto impossibile riuscire a capire quanto credibili fossero le sue ricostruzioni e le sue analisi geopolitiche.

Gli anni ottanta, quando Garelli sostava nell’apogeo della sua attività, sono stati il periodo d’oro per le grandi rotte dei rifiuti. C’era Pitelli, c’erano le terre della provincia di Caserta che si stavano aprendo al traffico gestito dal cartello dei Casalesi, clan di camorra che iniziava in quel periodo a rafforzarsi. Ma soprattutto c’era l’Africa. Dal 1975 l’ex Sahara spagnolo era una terra contesa. Per Garelli e la sua organizzazione quella terra costituiva una vera e proria miniera d’oro. Adottarono la denominazione di Urano, dietro la quale crearono una rete fitta di società di copertura, con contatti nell’intero bacino del Mediterraneo. È impossibile negare l’esistenza del progetto Urano. Sono centinaia i documenti, i riscontri testimoniali e gli incroci tra fonti diverse che provano il funzionamento del progetto di smaltimento di scorie pericolose prima nel Sahara occidentale e poi in Somalia. Dietro Urano si nascondeva il più grande traffico di rifiuti della storia. Ma nonostante ciò, nel 1993, il Tribunale di Roma assolse tutti i membri del gruppo. Cinque anni dopo quelle carte sono lette dalla procura di Asti e Milano, e in seguito all’interrogatorio di Garelli si spalancano le porte del mondo dei trafficanti di rifiuti su grande scala. Il quadro di riferimento delineato da Garelli era ben preciso: il produttore del rifiuto tossico nocivo è sempre stata l’industria chimica. E non esiste un’industria chimica che sia priva, al suo interno, di un presidio militare. Ecco ritornare il legame stretto tra i grandi gruppi di fabbricanti di armi e il traffico dei rifiuti pericolosi.

Il progetto Urano unisce due gruppi: da una parte il colonnello di uno stato africano mai riconosciuto, con un entourage di faccendieri, ex appartenenti alla P2, esponenti sconosciuti del sottobosco politico pugliese, uniti in una sorta di armata strampalata e improbabile; dall’altra parte Nickolas Bizzio, finanziere affermato, cittadino Usa, abituato a muoversi agevolmente tra incroci societari monegaschi e svizzeri. Due mondi che si uniscono sotto il segno di Urano, il progetto pensato e promosso da Guido Garelli per ospitare i rifiuti europei.

Dall’inchiesta del pm Maurizio Romanelli emerge che una quantità di circa 600000 tonnellate di rifiuti tossici (come riferito da Bizzio), tra i quali, solventi, morchie di vernice, siano effettivamente stati smaltiti in zona desertica in Africa. Detto ciò, non è importante la pena commisurata a Garelli & company, o meglio, essa assume minor valenza se si pensa alla pena di chi vive nei pressi delle zone africane ove furono smaltiti i rifiuti. Questa triste realtà evoca in me la trama di una vicenda tratta dal Roman de Brut di Wace, risalente al 1135, nella quale un gigante di nome Dinebuc, rapisce la figlia di un duca e, nel tentativo di violentarla, finisce per schiacciarla. Come Dinebuc questi trafficanti cercano di soddisfare i loro piaceri personali, ma, similmente al gigante, non si rendono conto delle ripercussioni, che le loro bramosie porteranno sul mezzo che garantisce loro di adempiere al bisogno medesimo di piacere, la fanciulla per il colosso di carne, l’ambiente per quelle infamie, che ahimé continuerò a fregiare del sostantivo “trafficanti”.

All’ombra di Dell’Utri

Appena dopo lo scoppio di Tangentopoli e la crisi profonda del sistema politico tradizionale, per molti gruppi economici si avvertì la necessità di riorganizzare il proprio sistema di riferimenti politici.

E non vi è la più infima meditazione nell’affermare che il gruppo Fininvest fosse la holding italiana più esposta, avendo basato il proprio successo sull’alleanza con il partito più colpito dai magistrati di Milano, il Psi di Bettino Craxi.

La meta di sbarco è da censire nelle elezioni del marzo 1994, lo snodo cruciale nella storia d’Italia, preparate con amorevole cura da Silvio Berlusconi. L’uomo chiave di quel periodo è il senatore Marcello Dell’Utri. Dopo il periodo universitario trascorso assieme, Dell’Utri iniziò a lavorare per le società di Berlusconi nel 1974, all’epoca della Edilnord. Il 1982 fu l’anno della svolta imprenditoriale di Berlusconi, quando la concessionaria pubblicitaria della Fininvest, Publitalia ’80, spiccò il volo. Coincidenza a dir poco casuale, il 1982 è l’inizio dell’era aurea di Bettino Craxi. In tutto ciò, Dell’Utri era l’uomo di fiducia di Berlusconi, il dirigente a cui affidare gli incarichi più delicati. Alla fine del 1992 il tycoon milanese si rese conto che quell’impero costruito in trent’anni di rapporti politici ed imprenditoriali non sempre chiari rischiava di essere abbattuto dai pm,i quali erano guidati da Saverio Borrelli. Tra il 1992 e il 1993 la Fininvest partì all’attacco. Dell’Utri venne incaricato di trovare una soluzione politica per evitare l’arrivo al governo degli ex comunisti e dei cattolici più legati alla dottrina sociale della chiesa e di ricostruire l’universo dei partiti di riferimento, capaci di garantire la posizione della Fininvest nel mercato dell’informazione.

Nel 1993 costituisce un gruppo di lavoro, denominato “Botticelli”. Esso era composto da pochi individui fidati, coordinati da Ezio Cartotto, politico di estrazione democristiana, che già da molti anni svolgeva la funzione di consulente per il gruppo Fininvest. Tra i componenti di quel gruppo vi era Roberto Ruppen, il nome che collega “Botticelli” agli intrecci europei ed africani dei traffici di rifiuti. Di lui, oggi, si sono perse le tracce. Rimane soltanto una sua deposizione risalente al 1992, dove, davanti alla procura di Alessandria, ammise di aver conosciuto Garelli nel 1988. In realtà, già nel 1987, Ruppen venne nominato “Ministro plenipotenziario ad interim” dell’Autorità Territoriale del Sahara. Di Ruppen si sa che ,all’epoca dei suoi vent’anni, venne arrestato per il furto di tre automobili, quando occupava la qualifica di semplice assistente chimico. Alla fine degli anni Ottanta era pienamente inserito nello strambo progetto Urano. Nell’informativa sul progetto Urano del 1998, gli ispettori della Forestale si soffermarono con particolare attenzione sulle società Tradem srl, di cui Adele Astuti(membra di “Botticelli”e segretaria di Cartotto) era la titolare. La Tradem aveva il compito strategico di “trasportare i rifiuti” nell’ambito del progetto Urano. Adele Astuti fu l’amministratrice delegata della società di trasporto Tradem fino al 22 febbraio 1993. I rapporti del consulente di Publitalia con il progetto Urano di Garelli erano dunque strettissimi. Nell’ottobre del 1991 Ruppen ottenne dall’Ats il diritto all’8% su tutti i contratti conclusi per conto dell’Autorità dell’ex Sahara spagnolo, attraverso un contratto firmato a Gibilterra nelle sedi delle società di copertura di Guido Garelli, la Euro Track System, la Compañìa Minera Rìo de Oro e la Ecos.

Nel marzo 1992 il progetto Urano, sembrò sul punto di partire. Ruppen presentò a Garelli Flavio Zaramella, responsabile dell’Associazione italo-somala di Milano. E fu in questo momento che si svilupparono gli stretti rapporti tra il gruppo del progetto Urano, alcune società legate a Ruppen e la Somalia. Rifiuti, strani traffici finanziari, ma anche armi. Il nucleo di Brescia nell’informativa del 1998 parlò di un traffico di armi e pezzi di armi pesanti che furono caricati al porto di LA SPEZIA su nave della linea Ignazio MESSINA S.P.A. Con destinazione MOGADISCIO-SOMALIA.I trasporti erano organizzati in accordo con lo Stato italiano, o almeno con i vertici delle forze armate. La Spezia è la sede dell’arsenale della Marina militare e porto che serve le principali fabbriche d’armi italiane. Ruppen, dunque, prima di essere chiamato a far parte del gruppo di lavoro da Marcello dell’Utri, che avrebbe dato vita di lì a poco a Forza Italia,era al centro di una intricatissima vicenda, fatta di improbabili colonnelli di Stati inesistenti, di partite di materiale strategico che faceva rotta verso la Somalia e di navi cariche di scorie industriali. Il nome di Ruppen apre però un altro capitolo, ancora più inquietante, mai approfondito fino ad oggi: nel pieno dell’attività del gruppo Botticelli venne consegnato,ad alcuni giornalisti,un piccolo dossier,anonimo, che legava il consulente di Publitalia ad una società romana attiva nel brokeraggio marittimo, la Fin Chart. Con un indirizzo che nel 1993 passerà alla storia, in seguito ad un attentato messo in atto da Cosa Nostra: via Fauro 43.

Via Fauro, Roma

È la notte del 14 maggio 1993. Nel quartiere liberty dei Parioli stava per iniziare l’abominevole stagione delle bombe e dei misteri seguita alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Non si trattò di un ordigno diretto al quadrilatero delle istituzioni (Camera, Senato, Quirinale, il Csm e Viminale). L’unico vero obiettivo strategico, l’ambasciata tedesca, non è molto distante, ad appena un chilometro. Il quadro del giorno dopo rasenta la drammaticità della Guernica di Picasso, il pensiero corre a Palermo, alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la stagione delle bombe non sembrava scorgere il traguardo. La seconda bomba colpì Firenze qualche giorno dopo, il 27 maggio. Poi toccò a Milano, nella notte tra il 27 e il 28 luglio a via Palestro. E altre autobombe esplosero ancora a Roma, nella piccola via del Velabro e in piazza San Giovanni. Bombe inspiegabili, segnali in codice incomprensibili, se non dai diretti interessati. Il dubbio sui reali mandanti, “stranamente”, rimane tutt’oggi. Sembra proprio che in Italia la verità sia una macchia laida ed immonda, da segregare nei sotterranei più inombrati del palazzo delle oscenità. E chi si azzarda a palesare, quella lurida ed ignobile entità, definita appunto verità, assaggerà la damnatio memoriae riservata qualche secolo fa a tiranni del calibro di Domiziano, Massimino il Trace, Nerone e Caligola. A distanza di vent’anni è oggi certo che la strategia “colombiana” non avesse una sola mente e, soprattutto, un unico obiettivo. La spiegazione ufficiale dell’attentato di Via Fauro, comunicata alla Camera dei deputati, dal ministro dell’Interno Nicola Mancino(di recente nello scandalo in seguito ad alcune intercettazioni telefoniche, che consiglio al lettore di ascoltare, in quanto delineano la vera carta d’identità del signor Mancino), indicava come obiettivo il giornalista Maurizio Costanzo. In via Fauro, al civico 43, c’era l’ultimo domicilio conosciuto di una importante società di brokeraggio marittimo. Si chiamava Fin Chart e ha chiuso ogni attività un mese dopo l’esplosione della bomba, con un fallimento, la cui natura, è tutt’ora un bacillo generante domande assai curiose.

Il 1993, nella storia dei traffici di rifiuti, di materiale nucleare e di armi, fu un vero anno di svolta. E di questi traffici si occupava la Fin Chart, sin dallo stadio embrionale degli anni ’80, organizzando i trasporti più delicati di scorie industriali verso i paesi africani e l’America Latina. Il curriculum della Fin Chart iniziò con Gibuti, nel febbraio 1987. La marina francese aveva bloccato davanti al porto una nave carica di rifiuti industriali partita qualche giorno prima dell’Italia. I francesi conoscevano bene questo tipo di traffico degli italiani, ricordavano il tour folle dei 41 bidoni alla diossina di Seveso di qualche anno prima, e non si fidavano del contratto presentato dalla Jelly Wax, la società che noleggiò la nave, la quale si istituì garante della destinazione finale presso alcuni impianti di smaltimento, esistenti in realtà solo sulla carta. La nave era ferma, la sola idea di iniziare a regolare lo smaltimento in Italia di quella enorme quantità di veleni, suscitava un gelido sudore nelle schiene ,poco inclini alla fatica e all’onestà, di chi organizzò il viaggio. Erano stati necessari più di 140 viaggi per riempire le stive di quella nave, la Lynx, ora ferma davanti al porto di Gibuti. Il 18 marzo del 1987, un mese dopo la partenza della Lynx da Marina di Carrara, la documentazione di viaggio cambiò: il nuovo shipbroker fu la Fin Chart, l’armatore non era più il maltese Lynx Shipping, ma la Fjord Tankers Shipping, il noleggiatore diventò direttamente la Jelly Wax di Pent, quella stessa società che aveva raccolto i rifiuti industriali nell’Italia settentrionale. Sui manifesti di carico apparve la nuova destinazione, Puerto Cabello, in Venezuela, in acque molto più tranquille e discrete, lontane dagli occhi degli ambientalisti, che dopo la partenza della Lynx avevano avvisato i francesi. Broker del neonato affare fu Luciano Miccichè, siciliano attivo a Panama, che si rivolse al governo di Caracas per trovare asilo allo scarico. La Lynx giunse infine in Venezuela, sbarcando i fusti velenosi all’aperto, adiacenti al mare. Anche quest’ennesima vicenda si prostra al lettore come ricca di nomi, di colpevoli che non pagheranno mai abbastanza i loro crimini, e di bambini che hanno pagato con la vita, un conto verso il quale rimarranno creditori in eterno. La mia penna non è sufficientemente capace a descrivere l’odio e la rabbia che provo verso questi signori, verso il basso impero che si china ad uno scenario ancora più scadente. Fatto certo è che questi bimbi, innocenti creature portatrici di una verità illibata, coloreranno ora, cieli nuovi, cieli di un mondo che li merita sicuramente più del nostro.

In viaggio verso la Somalia

Nel 1989, a Basilea, diversi Stati occidentali, asiatici, americani e africani firmarono il trattato che vieta l’esportazione di rifiuti tossici verso paesi in via di sviluppo. L’Italia, dopo Seveso e le rotte delle navi dei veleni, si era aggiudicata meritatamente e sul campo la maglia nera dei trafficanti di rifiuti. Ci vollero diversi anni, però, per ottenere la ratifica dell’accordo da parte di tutti gli Stati. L’Italia concluse la procedura di ratifica solo nel 1994. Il trattato, tuttavia non era una quercia secolare destinata a guardare il tempo con gli occhi dell’eternità, ma un piccolo fiore, che per sbocciare, aveva bisogno di un corollario di carezze, che lo accompagnassero nelle costanti provocazioni al quale veniva sottoposto dalla realtà esterna. Bastava infatti dimostrare, che un qualsiasi Stato africano fosse in grado di gestire correttamente i rifiuti pericolosi per riaprire le rotte alle navi dei veleni. Il 12 ottobre del 1991 in via Fauro a Roma si tenne una riunione importante. Il governo somalo di Siad Barre era caduto da un paio d’anni, il paese del Corno d’Africa stava scivolando nella guerra civile che dura ancora oggi. L’Italia controllava la Somalia attraverso importantissimi e lauti finanziamenti della cooperazione. Fondi gestiti , negli anni ’80, dal Partito socialista di Bettino Craxi, il quale riteneva la Somalia alla stregua di un mezzo funzionale a quel sistema di potere e corruzione, scoperto dalla Procura di Milano. Quel 12 ottobre vi fu una riunione negli uffici della Fin Chart, ove si discusse in merito alla costruzione di un impianto di trattamento di rifiuti civili e industriali in Somalia. Un vero e proprio “ polo funzionale”, attraverso il quale esportare nell’Africa orientale i peggiori residui delle nostre industrie chimiche e farmaceutiche. Un accordo che tatuava la sua legalità nell’epidermide cartacea, dietro la quale si celava un accordo tutt’altro che candido, tra signori dalla dignità pressoché inesistente. Tra il 1991 e il 1992, alla Fin Chart, si aggiunsero la svizzera Achair e la Interservice, ad alimentare la fagocitante arte del trasferimento di rifiuti. Ma pochi mesi dopo avvenne un fatto non programmato a guastare i piani dei trafficanti: la denuncia del responsabile dell’ONU per lo sviluppo Mustafà Tolba, nella quale si esplica l’esistenza di un traffico di rifiuti dall’Italia e dalla Svizzera verso la Somalia. Tolba soppesò le parole, ma al termine del suo discorso, in una sorta di tornada trobadorica, pronunziò il lemma “mafia”. Questa parola si celerebbe dietro un numero considerevole di cambiali per la cifra di 13 miliardi di lire, che sarebbero arrivate alla Fin Chart, mentre quest’ultima sostava inerme sull’orlo del fallimento. I creditori erano alla ricerca di pagamenti che rimandavano a fatture del 1988. A loro sostegno si schierò la procura di Milano, ma gli ufficiali giudiziari da essa incaricati, non riuscirono a trovare nessuno nelle due sedi conosciute della Fin Chart, via Fauro 43 e 59. Quando il Tribunale di Roma emise la sentenza di fallimento, il curatore trovò le casse e gli uffici vuoti.

Eppure la Fin Chart tra il 1992 e il 1993 sembra attivissima, soprattutto nei contatti d’affari con la Somalia. Vicenda pressoché analoga alla Fin Chart è da rilevarsi in una seconda società di via Fauro, la Finarma. Un anno dopo l’attentato di Via Fauro le bombe terminarono di mietere dolore. Tuttavia, Cosa Nostra era tornata nell’invisibilità da sempre venerata, continuando a dare alla luce tipologie di affari che da sempre la contraddistinsero, con i compagni di merende più amati.

A migliaia di chilometri dal luogo del primo attentato di quella stagione riassunta in mille inverni, una giornalista del Tg3 e il suo operatore, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, morivano in un agguato.

Quelle morti, apparentemente, non sembravano essere connesse con l’intrigo di via Fauro. Che c’entrava la Somalia dei signori della guerra con Cosa Nostra?

Maggio 1994, una fonte confidenziale contattò gli agenti della Digos di Udine e nominò, per la prima volta, due italiani strettamente legati allo scenario somalo e ai traffici riservati, Giancarlo Marocchino e Guido Garelli. L’esperto di logistica da anni presente in Somalia, disposto a lavorare con chiunque fosse in grado di pagarlo profumatamente e il colonnello dello Stato inesistente del Sahara occidentale, secondo la fonte, erano accomunati dall’agguato mortale contro Alpi e Hrovatin.

Con questa anonima confidenza si congiunse l’omicidio della giornalista del Tg3 al traffico d’armi, ma soprattutto, emerse un luogo sul quale cercare risposte: l’ormai nota Via Fauro,nella quale vi era la sede della Fin Chart e della Finarma e dove Garelli e Marocchino possedevano una società aerea di piccole dimensioni. Chi si nascondeva dietro la Fin Chart e la Finarma? C’è qualche segreto dietro via Fauro? Un signore chiamato mistero avvolse questa rete di vicende ,intersecate tra loro, nel suo mantello oblioso.

Ho paura” e Giancarlo Marocchino

Queste due sezioni del quinto capitolo riportano una serie di nomi, tra i quali: Ferdinando dall’O, Ezio Scaglione, Flavio Zaramella, Giancarlo Ricchi ed i già citati Guido Garelli e Giancarlo Marocchino. Storie di pseudouomini che nel momento in cui vengono incastrati nel vortice dei loro errori spariscono come per incanto, assieme alle loro fantomatiche società(questo è il caso di Ferdinando dall’O, molto simile nelle dinamiche a quello esaminato in precedenza, di Roberto Ruppen). Storie di titoli inesistenti, di logge massoniche, di associazioni improbabili e Camere di Commercio da usare come uffici; storie di un gruppo di imprenditori(come Ezio Scaglione, titolare di un negozio di ricambi per automobili, in provincia di Alessandria) pronti a commerciare qualsiasi cosa avesse un valore di scambio, soprattutto nei paesi africani dilaniati dalla guerra civile, dove tutto acquista valore, anche le cose più banali. Questi signori, guidati da Marocchino, volevano costruire un porto ad El-Maan, con il fine di collocare rifiuti sia nucleari che radioattivi, che sarebbero poi stati cementificati in una sorta di cilindro in piedi in metallo(per correttezza c’è da dire che l’idea del cilindro fu di Garelli). Ma anche questa incombenza venne archiviata, a causa della debolezza delle prove e della difficoltà nella configurazione dei reati ipotizzati.

Archiviata nella carta, ma non nelle menti di chi si sia inoltrato, anche solo per un istante, in questa tumultuosa vicenda. Infatti dalla testimonianza di Giancarlo Ricchi, che fu alle dipendenze di Marocchino nel 1997, emerse un quadro di quest’ultimo estremamente crudo nella sua chiarezza, che non lascia presagire ad un misero aprir bocca di un qualsiasi invasato. Inoltre, Marocchino,intervistato dalla rai, sul luogo dell’omicidio di Ilaria Alpi, stringe nelle mani un quaderno della giornalista, segnando con il dito medio un punto preciso del suddetto quaderno, che a rigor di logica, celava dietro di se un argomento di particolare interesse per il medesimo Marocchino. E molto probabilmente, conscio dell’ostinatezza e della curiosità tipiche di Ilaria Alpi, temeva che quest’ultima scoprisse il suo ruolo di mediatore all’interno della storia dei traffici. Cosa aveva letto in quel quaderno, su quella pagina che il suo dito segnava con cotanta fermezza?

La Somalia di Jupiter

20 marzo del 1994, Mogadiscio. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano appena tornati da Bosaso, nel Nord della Somalia. Il paese era nel pieno di una guerra civile che durava dal momento della caduta di Siad Barre. Ilaria aveva tra le mani un ottimo servizio per il telegiornale della sera. Ciò che accadde quel giorno è ormai noto. Un commando seguì il loro fuoristrada: un’imboscata, una fredda e abominevole esecuzione. Ilaria Alpi stava preparando da tempo un’inchiesta sui traffici che passavano per la Somalia. Piero Sebri parlò per la prima volta di ciò che avvenne in Somalia. Lui non partecipò mai direttamente o indirettamente ai traffici, ma conosceva il gruppo, che secondo il suo racconto, si celava dietro l’agguato. Lo conosceva talmente bene, da essere contattato da due personaggi chiave della faccenda somala: l’allora colonnello del Sismi Luca Rajola Pescarini e l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino. Oggi ipotizza addirittura un ruolo attivo delle mafie nell’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Sebri sosteneva che Ilaria Alpi, con i documenti da essa stessa raccolti, era in grado di creare grossi problemi ai governi italiani, esteri ed ai gruppi bancari. Aggiunse che la giornalista era già stata minacciata, ma la sua perseveranza era tale da far prevaricare la purezza del suo lavoro alla morte. Passiamo ora al Sismi che attribuiva l’omicidio esclusivamente a due possibili moventi: il fondamentalismo islamico o la criminalità comune. Per i servizi segreti ogni altra ipotesi era inesistente. L’operazione dei trafficanti si faceva assai delicata, ed è proprio per condurre in porto i piani prestabiliti che la palla passò in mano alla mafia, da sempre sinonimo di affidabilità. Il lavoro che non ammette errori è lavoro per la mafia. Dietro questa triste realtà, secondo Sebri vi erano anche politici italiani, i quali avevano il ruolo di coprire i traffici. Sebri fece i nomi. Nessuno li approfondì. Sebri pronunciò il nome di Giuseppe Cammisa, detto Jupiter, braccio destro di Francesco Cardella, per anni ambasciatore del Nicaragua in Arabia Saudita, con un passato burrascoso a capo della comunità terapeutica Saman, morto d’infarto il 6 agosto 2011. Il collaboratore di giustizia Rosario Spatola conobbe bene Roberto Cammisa, e nel 1995 affermò che quest’ultimo era un buon intenditore del processo di raffinazione dell’eroina, ma non ricoprì un ruolo diretto nell’omicidio del 20 marzo 1994.

Cardella e Cammisa negli anni Novanta hanno avuto diversi guai giudiziari: Cardella venne processato e condannato per truffa, per aver sottratto diversi fondi pubblici, attraverso una fitta rete di società con base a Malta;l’accusa più pesante fu quella di aver organizzato l’agguato contro Rostagno. Cardella e Cammisa vennero poi prosciolti e la loro posizione archiviata. Chissà perché l’archivio delle cause è prerogativa dei potenti, e quando ciò non avviene, la magistratura viene accusata di accanimento nei confronti del criminale. Non è mai tardi per una giustizia fatta di luce e di coscienze pulite. Se non ci credessi, rinuncerei a scriverlo. Ritornando al racconto di Piero Sebri, emerse l’associazione che quest’ultimo realizzò nel legare la presenza di Giuseppe Cammisa in Somalia nel marzo 1994 con la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Gli elementi che confermerebbero questa tesi sono i seguenti: primo, il Sismi riferisce del viaggio verso la Somalia nel febbraio 1994 della nave Garaventa, di proprietà di Cardella, il quale però smentisce;secondo, lo stesso Cardella ammise di aver inviato Cammisa in Somalia, proprio in quel periodo. Cammisa si sarebbe poi spostato a Bosaso, area che nel 1993 era definita estremamente pericolosa e destinata allo scambio di armi,allo scaricamento di rifiuti nucleari e industriali ed inoltre, era off-limits per i giornalisti, soprattutto italiani.

Ilaria Alpi, a riguardo di ciò scrisse nel suo quaderno:”Perché questo caso è particolare?”. 20 anni dopo la risposta a questa domanda potrebbe confluire in una trama terribile, che vede al centro Giuseppe Cammisa, il quale, a detta di Piero Sebri, pare abbia avuto un qualche ruolo nella fine della straordinaria e coraggiosa reporter del Tg3.

Il volo del Condor

14 marzo 1994. Questa data chiude un documento che è probabilmente la chiave per arrivare alla verità sulla morte di Ilaria Alpi. Proprio quel giorno Ilaria Alpi e Miran Hrovatin giunsero a Bosaso in cerca di risposte. Al momento del loro arrivo partì un messaggio dal comando carabinieri presso i servizi segreti della Marina militare Alto Tirreno, La Spezia, dove si parlava di “presenze anomale”, ovvero i due giornalisti, e si nominava un certo Jupiter, ovvero il soprannome di Cammisa. Successivamente vi era un secondo messaggio, con il quale si autorizzava un certo “Condor” all’intervento. Le seguenti domande sono d’obbligo:cosa nascondono questi messaggi cifrati?;chi è o cos’è Condor?;perché una giornalista viene reputata come una “presenza” anomala?;ma soprattutto, perché un individuo come Giuseppe Cammisa, considerato vicino a Cosa Nostra, e diplomato a pieni voti nella preparazione dell’eroina, lavora per l’intelligence italiana?Le inchieste degli ultimi vent’anni hanno operato in tutt’altra direzione, non prendendo in considerazione i due messaggi. A pensar male verrebbe da affermare che la verità, che si cela da troppo tempo dietro a questa tragedia sia scomoda, e di conseguenza non degna di essere svelata. Le righe da dedicare a questi fatti, ma soprattutto a queste vite, non sono mai troppe. La penna di chi fa informazione deve essere una penna responsabile, che non conosce tregua. Deve ricercare prima la verità e solo dopo la risonanza mediatica. Questo è ciò che contraddistinse, e contraddistingue tutt’oggi, Ilaria Alpi da molti fantomatici giornalisti che fanno disinformazione su commissione dei loro padroni. Per me la vita di Ilaria Alpi costituisce un esempio di piena esistenza,e mi è stata d’ispirazione per questi versi

Ai piedi fetidi di questa realtà

perisco supino, ma mai inginocchiato,

perché esser passivi alla bestialità

è forse il più grave reato,

è questo il più grande peccato”

A cura di Giacomo Carlesso

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I prossimi capitoli seguiranno nelle prossime settimane, orientativamente uno ogni due settimane, mentre per leggere i precedenti potete cliccare qui

3 Risposte to “Indispensabili – Trafficanti (di morte) – Cap 5) LA VIA AFRICANA”

  1. MB said

    avrei bisogno di farti alcune domande relativamente ad un nome che citi e che ho paura di aver incontrato sulla mia strada.. Puoi scrivermi in privato? grazie

    • giannigirotto said

      Volentieri, ma guardi che il libro non l’ho scritto io, l’ho semplicemente riassunto, per cui le conviene sentire l’autore…

  2. Alfredo Bianco Geymet said

    Molto interessante, aspetto i prossimi capitoli

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